Ereticopedia: Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori


È nato da pochissimo e precisamente dal 12 febbraio 2013 un progetto di ricerca e di condivisione del sapere molto interessante: Ereticopedia: Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori.

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Dopo una fase di preparazione (e un timido esordio su altra piattaforma dal 18 gennaio 2013) è così che si presenta al pubblico del web:

Ereticopedia è al momento solo un progetto provvisorio e precario. L’idea-base è di costituire un dizionario on line di personaggi e movimenti che si sono opposti alla “norma”, rivendicando il diritto alla libertà personale, di pensiero, di espressione, di azione, il diritto al dissenso e il primato della coscienza individuale su regole, dottrine e rituali di comportamento imposti dall’alto e/o comunemente accettati dalle società in cui ebbero la sorte di vivere. Cioè che hanno esercitato (coraggiosamente e spesso al prezzo della propria vita) diritti che dovrebbero costituire la base della nostra attuale società, che spesso si proclama figlia dei valori illuministici, ma appartenenti anche alla più autentica tradizione cristiana, di tolleranza e rispetto della dignità della persona. Valori di tolleranza e libertà che sono stati fatti propri e sono oggi difesi con forza dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese protestanti, che in tempi recenti hanno dovuto subire e talvolta subiscono ancora dolorose persecuzioni. Per cui, si precisa, questo sito non è schierato a favore di tale o talaltra ideologia o confessione, ma mira esclusivamente a illustrare i fatti e le problematiche con la chiarezza e il rigore che si devono al mestiere dello storico.

06_manicheiEreticopedia si interessa di storia dell’Italia moderna (XV-XIX sec.) e in particolar modo delle  biografie di tutti gli eretici e riformatori italiani, dei dissidenti politici e di tutti coloro che ebbero a che fare con la Riforma e/o l’Inquisizione romana, alle interazioni e agli scambi, sia di uomini che di idee, che in quel periodo si svilupparono tra Italia, Europa e mondo islamico.


Le voci sono suddivise in cinque sezioni tematiche: eretici (55%); inquisitori (25%); attori politici (5%); voci tematiche (5%); storici e storiografie (10%). Il sito è in continua costruzione e revisione, le voci presenti, infatti, sono da considerarsi “provvisorie” perché l’intento è quello di ampliarle  e migliorarle col tempo.


Il comitato scientifico fa suo l’impegno di ricerca che è alla base della collana “Il cannocchiale dello storico”, diretta dal Prof. Achille Olivieri presso l’Aracne editrice, il cui comitato scientifico è così costituito:

Il fondatore e segretario di redazione del sito: Dr. Daniele Santarelli.


“I costumi grotteschi e i mestieri” di Nicolas de Larmessin II

Ieri si è finito di festeggiare la mia festività preferita a Milano: il Carnevale ambrosiano.

Per l’occasione ho deciso di pubblicare alcune delle stampe popolari di Nicolas de Larmessin II, la serie si intitola Les costumes grotesques et les metiersFancy Trade Costumes series.

Nicolas de Lamerssin II per questa pregevole serie ha inciso su rame circa un centinaio di caricature di artigiani ripresi nelle loro occupazioni quotidiani o vestiti dei loro arnesi di lavoro, con un gusto al limite fra il grottesco e il futuristico. La serie sembra opporsi diametralmente, in quanto questa è esaltazione e omaggio alla vita umana,  alla famose e più antiche Danze macabre.

Queste stampe furono d’ispirazione per molte opere che seguirono: basti citare il Fabbro armonioso di Hendel, Suite No. 5 in E major, HWV 430 per cembalo del 1720.

Chi era Nicolas de Lamerssin II?

Non è stato facile raccogliere delle informazioni biografiche su questo artista francese.
Nato circa nel 1638 da una famiglia di stampatori e incisori parigini specializzati in opere di carattere popolare come calendari, carte da gioco, stampe e libri di preghiere, e conosciuti anche con il cognome L’Armessin. Diventa famoso soprattutto per i suoi ritratti: Les augustes representations de tous les roys de France depuis Pharamond iusqu’a Lovys XIIII: dit Le Grand, a present regnant, 1679: avec un abrège historique sous chacun, contenant leurs naissances, inclinations et actions plus remarquables pendant leurs regnes. Inoltre, fra le molte opere a lui commissionate si ricorda il ritratto di Tommaso Campanella e quello di Galileo. Muore circa nel 1725.

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La poesia dimenticata: Marceline Desbordes-Valmore

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Non ricordo bene come venni a conoscenza di questa poetessa ma vi sono dei suoi versi che mi sono rimasti nel cuore e desidero condividerli con voi. Ancor più perché la poesia non fa rumore, soprattutto quella scritta da mani di donna, e in Italia, si sa, ci abituano a non cercare bellezza oltre i nostri miseri confini.


La memoria – Marceline Desbordes – Volmore (trad. Maria Luisa Spaziani)

Taci, sorella, ché il passato brucia.
Taci il suo nome, ché il suo nome è lui.
Ostinarsi sui beni perduti
è come andar con l’onda che ripiega.
Quel nome che mi è ardore e mi è dolcezza
quel nome, quando appena ora mi tocca,
come un fuoco mi avvampa nella bocca.
Sorella, non parlare.

Vedi, da donna, un cuore di donna
in fondo ai nostri occhi costernati:
a spegnersi alla fine condannati,
troppa febbre la fiamma se ne porta.
Di questo male la tortura forte
inflessibile l’uomo a lungo regge,
e se ci vieta, con spietata legge,
la sofferenza, ci concede morte.

Come conosce, lui, l’amara scienza
di offrir menzogne anche al suo stesso amore;
quanta furia lo nutre, e che rancore
contro il suo antico idolo s’inventa.
Come c’investe, a volte, l’aspro fiato
del suo odio… se nel suo delirio,
perché non me ne offrisse Dio vendetta,
ad alta voce non l’ho mai gridato.

Ché per lui verso, inesaurita fonte,
un pianto che somiglia a una preghiera;
in essa amore a carità si fonde
che dell’amore è la radice vera.
Che fede ti vibrava nell’accento,
giovane voce subito spergiura!
Ne parlo a Dio e taccio il tradimento
perché ti ami quanto t’amo io.

La fresca impronta m’è rimasta in cuore
di ciò che il suo candore un tempo è stato.
E quando Dio peserà il mio cuore
quel vuoto eterno, insieme, avrà pesato.
Non è più lui, nemmeno ai propri occhi,
e chi ha avuto il suo omaggio s’è ingannato.
Lo compiango: ma solo un giorno, in cielo,
gli ridarò il bel viso ritrovato.


Marceline Desbordes-Valmore (Douai, 20 giugno 1786 – Parigi, 23 luglio 1859), è figlia d'”arte” di Catherine Lucas e Félix Desbordes, pittore di stemmi, poi cabarettista a Douai alla fine della Rivoluzione Francese. Nel 1801, parte per la Guadalupa con sua madre, e inizia la sua carriera artistica come attrice.Nel maggio del 1802 la madre di Marceline muore di febbre gialla e nel settembre dello stesso anno Marceline fa ritorno in patria, dove recita in teatro a Lille e a Douai. Inoltre, si esibisce come attrice e cantante all’Opéra-Comique e al Théâtre de la Monnaie a Bruxelles, nel ruolo di  Rosina per Il barbiere di Siviglia di Beaumarchais ed è protagonista in più drammi di Pigault-Lebrun.marceline

Dal 1808 al 1810 ha un avventura amorosa con colui che chiamerà Olivier nelle sue poesie, dal quale avrà un figlio che morirà al quinto anno di età. Nel 1817  si sposa con l’attore Prosper Lanchantin, detto Valmore.

Nel 1819 pubblica la sua prima raccolta di poesie, Élégies, Marie et Romances, che attirerà l’attenzione del Journal des dames et des modes, l’Observateur des modes e della Muse française. A queste seguono le pubblicazioni del 1824 Élégies et poésies nouvelles, del 1833 Pleurs, del 1839 Pauvres fleurs e del 1843 Bouquets et prières.  Nel 1833, pubblica un romanzo autobiografico dal titolo L’Atelier d’un peintreMarceline compone anche delle novelle e dei Racconti per bambini, in prosa e in versi.

La sua poesia, nonostante la scarsa cultura appresa da autodidatta, è una poesia d’avanguardia che anticipa lo stile di Verlaine e Rimbaud e che può vantare l’invenzione del metro francese ad undici sillabe e la genesi di Romances sans paroles. Non è un caso che fu grandemente stimata dai più importanti poeti e scrittori dell’epoca come lo stesso VerlaineHugo, Baudelaire, Honoré de Balzac e molti altri.

Potete trovare alcune delle sue poesie tradotte con testo originale a fronte, pubblicate dalla casa editrice La vita felice.

The divine horsemen di Maya Deren

Oggi in mediateca mi è capitato fra le mani un documentario di Maya Deren, non avevo idea di chi fosse ma già dalle prime immagini mi aveva catturato. Il documentario, con libro allegato, è The Divine Horsemen,Voodoo gods of Haiti e qui sotto potete leggere quello che ho scoperto.

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 Maya Deren (Kiev 1917 – New York 1961), ai natali Eleanora Derenkowskaia, è stata una delle più importanti ed influenti filmakers sperimentali americane degli anni ’40-’50. Oltre al cinema la Deren era anche molto altro: una coreografa, una danzatrice, una studiosa, una poetessa, una scrittrice e una fotografa. Nata da una colta famiglia ebrea di origine ucraina, proprio durante i giorni della Rivoluzione d’Ottobre, ottenne nel 1922 la cittadinanza americana, dopo esser fuggita per il timore dei genitori di rappresaglie antisemite e anti-trotskijste. Alla Syracuse University studiò giornalismo e scienze politiche, iniziò a frequentare gli ambienti socialisti e femministi negli anni ’30 e sempre a quell’epoca cominciò a entusiasmarsi con l’avanguardia americana, influenzata dal surrealismo francese. Poi si sposò con Gregory Bardacke, divenne un’attivista politica, si laureò in letteratura inglese e divorziò. Fu allora che ebbe inizio la sua carriera artistica. Inizialmente si avvicinò alla danza, che le permise di conoscere l’antropologa afro americana Katherine Dunham. La danza e i suoi simboli saranno un argomento frequente della sua cinematografia.

La prima cinepresa, una Bolex 16mm, acquistata di seconda mano agli inizi degli anni ’40 con i soldi ereditati dal padre, la usò per girare il suo primo film, Meshes of the Afternoon (1943). A questo seguirono: The Witch’s Cradle (1943), At Land (1944), A Study in Choreography for Camera (1945), Ritual in Transfigured Time (1946), The Private Life of a Cat (1947), Meditation on Violence (1948), Medusa (1949), Ensemble for Somnambulists (1951)The Very Eye of Night (1958)Season of Strangers (1959).maya deren film

The function of film like most art forms, was to create an experience; each one of her films would evoke new conclusions, lending her focus to be dynamic and always-evolving.

Ci sarebbe molto altro da dire riguardo alla sua biografia ma per problemi di spazio e di tempo salterò subito alla fine. Morì nel 1961 a seguito di un’emorragia cerebrale, probabilmente causata dallo stato di debilitazione in cui si trovava, dovute alla scarsità di denaro e alle difficoltà lavorative, e a un buon cocktail di psicofarmaci e amfetamine.


the divine horsemanDivine Horsemen: The Living Gods of Haiti (1985) è un documentario in bianco e nero sulle danze e sui rituali vudù haitiani, pubblicato postumo grazie a Teiji Ito, terzo marito della regista, e alla moglie Cherel Winett Ito. Le riprese risalgono al periodo che va dal 1947 al 1954, quando la Deren vinse una borsa di studio della Guggenheim Fellowship. Nel 1953, a riguardo aveva pubblicato presso la  Vanguard Pressil libro Divine Horsemen: The Voodoo Gods of Haiti, raccogliendo annotazioni e riflessioni, fino a costruire un vero e proprio capolavoro, tutt’ora considerato fondamentale per gli studi antropologici sui rituali vudù.

The ritualistic form treats the human being not as the source of the dramatic action, but as a somewhat depersonalized element in a dramatic whole. The intent of such depersonalization is not the deconstruction of the individual; on the contrary, it enlarges him beyond the personal dimension and frees him from the specializations and confines of personality. He becomes part of a dynamic whole which, like all such creative relationships, in turn, endow its parts with a measure of its larger meaning.

Una versione italiana del libro è stata pubblicata dal Saggiatore con il biasimabile titolo I cavalieri divini del vudù, nella collana ‘Studi sull’occulto’. Buona visione e buona lettura!

Vita e opere dell’eretico Giorgio Siculo

Sto leggendo Eretici italiani del Cinquecento di Delio Cantimori e nella lettura di questa ricerca storica sono rimasta alquanto affascinata dall’eretico Giorgio Siculo. Per voi, miei cinque lettori, un sunto di quello che ho scoperto.

orioli_qualeresia_06Le notizie riguardo la biografia di Giorgio Siculo, anche detto Giorgio Rioli (San Pietro Clarenza, ca 1517 – Ferrara, 23 maggio 1551), sono alquanto scarne.  Monaco benedettino nel convento di San Niccolò l’Arena, alle falde dell’Etna, nel settembre 1537 conobbe il confratello mantovano Benedetto Fontanini (ca 1490 – circa 1555), in odore di eresia per aver letto libri proibiti, aver conosciuto a Napoli Juan de Valdés, ed aver scritto dal 1537 al 1543,  il Beneficio di Cristo, un testo anonimo contenente tesi luterane. Durante il Concilio di Trento, Luciano degli Ottoni spedì, per averne un giudizio, al Siculo il suo intervento del 23 novembre 1546, non accettato dalla curia in quanto sostenente tesi luterane sulla dottrina della giustificazione:chi ha vera fede non può essere un peccatore ed è quindi salvo.

All’Ottoni rispose inviando il suo Responsio ad argumentum predictum, in qua etiam perfectissime declaratur quid sit Justificatio et viva hominis regeneratio (Biblioteca municipale di Besançon), per il quale cercò poi di farsi ricevere dal cardinale Reginald Pole, al fine di illustrargli direttamente le sue dottrine profetiche ed apocalittiche.

All’esplosione, nel 1548, del caso di Francesco Spiera, corrisponde la stesura della sua seconda opera Epistola di Georgio Siculo servo fidele di Iesu Christo alli cittadini di Riva di Trento contra il mendatio di Francesco Spiera et falsa dottrina de’ protestantipubblicata a Bologna nel 1550 dallo stampatore Anselmo Giaccarelli. L’opera consta di 127 pagine numerate più una carta ed è rilegata in ottavi. Le iniziali sono decorate e stampate tramite la tecnica xilografica, il carattere scelto è il corsivo romanico e il marchio editoriale (T5,Z493) presenta una cornice formata da un ramo di palma ed uno di ulivo, dove all’interno Ercole uccide l’idra di Lerna, e sul quale campeggia il motto “Vinconsi con vertù gli humani affetti”. Z493

Nell’Epistola, il Siculo, sulla scia delle teorie dello spagnolo Serveto,  nega l’esistenza della predestinazione cosicché possiamo tutti e senza distinzione esser considerati eletti e salvi, in virtù della nostra fede e del libero arbitrio. Scrive infatti: «non per il peccato del nostro padre Adamo, né per mancamento della divina gratia, ma per la nostra propria impenitenza, incredulità e per li attuali peccati».

In questo modo, pur non contestando l’autorità della Chiesa, né la Trinità, o i sacramenti, il battesimo e gli altri dogmi delle chiese cattoliche e riformate, il Siculo risulta “eretico” in toto, in quanto anabattista, per entrambe le fedi religiose.

A questa prima epistola ne segue un altra dal titolo: Espositione di Georgio Sicolo seruo fedele di Iesu Christo nel nono, decimo, & vndecimo capo della epistola di san Paolo alli romani.

A quel punto si trasferisce a Ferrara, dove si trovava l’abate Ottoni, per continuare la sua opera di predicazione e pubblicare la sua opera più importante: Della verità christiana et dottrina appostolica rivellata dal nostro signor Giesù Christo al servo suo Georgio Siculo della terra di santo Pietro, anche detto Libro Grande. Il volume è andato perso a causa della persecuzione cattolica che ne ritirò le stampe, appena uscite dal torchio.  gsiculo

A causa di queste opere il Siculo venne catturato e processato per eresia. In un primo momento accettò di abiurare pubblicamente il 30 marzo 1551 nella chiesa di San Domenico a Ferrara, davanti all’Inquisitore fra’ Michele Ghisleri da Alessandria (il futuro Pio V) e ad Ercole II d’Este, ma alla fine rifiutò. Morì strangolato due mesi dopo, la sera del 23 maggio 1551.

“I miserabili”: giustificatio nominis

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Il The Paris Review ha pubblicato questo semplice schema sui personaggi del romanzo di Victor Hugo. Non ho potuto fare a meno di ripresentarlo al pubblico italiano.

Si deduce, infatti, da una rapidissima occhiata che mai titolo fu più azzeccato. Dopo aver analizzato gli aggettivi ricollegabili a ogni menzione riguardante i 36 personaggi de “I miserabili”, nei cinque volumi che lo formano, si nota la prevalenza di un lessico negativo (nello schema è indicato dal colore rosso). L’altezza dei rettangolini indica invece la frequenza con la quale gli sfortunati attori della prosa vengono menzionati.

Ripassiamo insieme lak3rgkyqq trama di questo caposaldo della letteratura francese e mondiale, risalente al 1862. Siamo nella Parigi della post-Restaurazione e durante l’arco temporale che va dal 1815 al 1833 si intrecciano le avventure dei popolani dei bassifondi parigini, vittime dell’ignoranza e dell’ingiustizia sociale. Il protagonista, Jean Valjean ha scontato 19 anni di pena in carcere per il furto di un pezzo di pane ed aver poi tentato la fuga. Tornato in libertà, trova rifugio dal vescovo di Digne, che nonostante tenta di aiutare il ladruncolo nella conquista della redenzione viene derubato della sua argenteria. Per questa ragione Valjean si trova costretto a fuggire di nuovo ma sfortunatamente viene presto catturato con la refurtiva. Il buon vescovo inaspettatamente lo scagiona a quel punto sostenendo davanti alle guardie francesi di aver regalato quel bottino. Colpito da tanta generosità, Valjean si redime e diventa un filantropo. Difende Fantine, abbandonata con la figlia Cosette e maltrattata dall’ispettore Javert. Grazie all’intervento del novello benefattore, Fantine viene rilasciata, ma quando Javert riconosce Valjean sotto la nuova identità inizia a perseguitarlo, tanto da costringerlo di nuovo ad una vita randagia. Intanto Fantine muore e Valjean adotta Cosette che troverà la felicità sposando Marius, di nobili natali e dalla parte dei rivoluzionari. Muore, infine, il protagonista sorretto dall’amore dei due giovani, che gli stringono le  mani, e illuminato dai luce dei ceri posti nei candelabri d’argento del vescovo di Digne.

“Des Monstres et prodiges”, teratologia nel Cinquecento.

Des Monstres et prodiges è il titolo di uno dei best-sellers della fine del Cinquecento ovvero di uno dei testi base della teratologia, la scienza che studia le mostruosità congenite.

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L’opera in questione, scritta dal dottor Ambroise Paré (1510-1590), ebbe una lunga storia editoriale, con diverse riedizioni per molteplici stampatori, che ebbe inizio con l’uscita della prima edizione nel 1573 presso lo stampatore parigino André Wechel, nel suo studio all’insegna dello “Cheval Volant”, luogo che ha visto la nascita anche di alcune opere di Giordano Bruno.

Il trattato di Paré cerca di spiegare nei suoi otto capitoli (Colera; Cause esposte nel capitolo 1; Ripugnante; La ragione per la quale; Dio permette che i genitori acconsentino a un atto così mostruoso tant’è anch’essi copulano come le bestie brute (coito a tergo); Libro storico della Bibbia; Razze; Il papa Giulio II ha guidato principalmente l’attività militare: ha cercato in tutto il suo pontificato di annettere nuovi territori.) i fenomeni relativi alla nascita dei mostri.

Tre saranno le motivazioni che addurrà:

  • Dalla pratica del “coito a tergo” (“il disordine che gli uomini fanno copulando da bestie brutali”, L.12-13-14)
  • Dai rapporti sessuali  avvenuti durante il periodo mestruale (“Le donne mestruate generano mostri”, l. 16-17)
  • Come annuncio di calamità di ordine pubblico come guerre, pestilenze e apocalissi.

Per sostenere le sue affermazioni Paré, con una mentalità ancora legata alla cultura medievale e scolastica,  chiama in causa l’evidenza dei fatti (“E ‘certo che le creature più mostruose e prodigioso procedono dal giudizio di Dio”, l. 10) e le autorità letterarie del mondo classico  e biblico (“Le meraviglie antiche vengono spesso percepite come la pura volontà di Dio…”, L.18-19). Nulla di più distante dal rigore scientifico moderno!

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Il marchio tipografico di Pietro Farri

Il marchio tipografico è ciò che di più intimo un tipografo lascia trapelare della propria visione del mondo, della sua arte e di sé stesso. Nella mia tesi di laurea magistrale è stato questo piccolo simbolo a farmi appassionare al lavoro di uno dei tanti tipografi-editori del ‘500: Pietro Farri.

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Il marchio editoriale è un simbolo o una piccola illustrazione con una o più figure unite alle iniziali dell’editore-stampatore ed eventualmente a un motto, realizzato con la tecnica xilografica, ovvero imprimendo sulla pagina un blocco di legno inciso a mano oppure, con maggior frequenza solo dal XVIII secolo, tramite un supporto di rame.

Il marchio editoriale fa capolino in tipografia per la prima volta nel 1457, nel colophon dello Psalterium magontinum di Johann Fust e Peter Schöfferche scelgono di utilizzare un’iconografia araldica con due scudi appesi a un ramo. Molti altri sono rimasti nella storia e una menzione di riguardo merita quello del caro Aldo Manuzio, il Delfino con il motto latino “Festina Lente” e viaggiando nel tempo fino agli inizi del Novecento quello di Arnoldo Mondadori con la rosa dipinta e il motto dantesco “In su la cima” (Paradiso, XIII, v. 135).

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Tornando al motivo che ha ispirato questo post e che ha come fondamento scientifico le ricerche svolte nella mia tesi magistrale “RICERCA INTORNO AL MONDO NUOVO DI GIOVANNI GIORGINI DA IESI (1596)” , nel corso della sua attività editoriale l’officina del Farri utilizza tre diversi tipi di marche tipografiche per ‘firmare’ i propri lavori.

Seguendo la classificazione proposta da Giuseppina Zappella, per i tipografi del Cinquecento, e quella del Mar.T.E., per quelli del Seicento, Farri sceglie principalmente, per le edizioni cinquecentine, il simbolo del cammello inginocchiato, in atto di rialzarsi per non far aumentare la sua soma, mentre viene caricato da due persone (V43-U373), accompagnato dal motto Satis; questo animale simboleggia infatti «coloro che non intendono caricarsi di pesi maggiori di quelli che possono portare, come il cammello che quando è carico si alza per non fare aumentare la soma»,[1] ma anche il carattere difficile e orgoglioso dei primi tipografi, poiché di loro «il cammello bene si prestava ad esprimere le vicissitudini e le frustrazioni ma anche l’innato amore per la liberà».[2] Per le edizioni del seicento, invece, il Farri opta per un’iconografia più cattolica e classica, adatta al rinnovato fervore religioso e ripresa dai materiali dell’officina paterna, ovvero la Carità, una donna con un bambino in braccio e altri due intorno (le esecuzioni sono diverse e in una di queste la Carità porge una ciotola a uno dei bimbi), seguita talvolta dal motto Ubi Charitas est ibi Deus est o dalla didascalia Charitas (Mar.T.E 347-464-150-1258). In un un’edizione, quella delle Facetie, motti, et burle di Lodovico Domenichi, adopera il marchio del fratello Giovanni con l’uomo triforme e una didascalia in greco, ma senza motto e con le iniziali I. F. (V261-Z1183).

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[1] E. Vaccaro, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del secolo XVI nella Biblioteca Angelica di Roma, Firenze, Olschki 1983, p. 82.

[2] G. Zappella, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento: repertorio di figure, simboli e soggetti e dei relativi motti, Milano, Editrice Bibliografica 1986, I, p. 90.

L’addio a Giovanna Bemporad

 

Prima di tutto vorrei dirvi perché ho scelto di tradurre l’Odissea come opera della mia vita, l’opera in cui ho gettato tutte le mie facoltà al punto di trascurare perfino la mia propria poesia. Perché io sono, voi siete, ciascuno di noi è Ulisse! Noi cerchiamo i passi del mare ignoto e la via del ritorno, noi vinciamo il Ciclope, noi diciamo a noi stessi: “Cuore sopporta, ben altro tu hai sopportato più cane”, noi ascoltiamo le voci dei nostri morti e il pianto di nostra madre, noi ci strappiamo dalle braccia di Circe e di Calipso o dagli occhi di Nausica, noi torniamo alla nostra casa e la liberiamo dai malvagi e la purifichiamo, noi sappiamo che anche da così dolce e meritata pace ci strapperemo un giorno per andare più in là dove un remo è creduto una pala da grano o per trovare la risposta definitiva alla domanda che ci siamo posti nascendo. Perché le belle storie invadono, colmano un ripostiglio segreto che è in ciascuno di noi, ci fanno ritrovare la nostra personale e forse dimenticata riserva di umanità! Meglio di ogni altra l’Odissea, che è la più bella storia del mondo! Lasciatelo dire a me che per riportarla in vita nella nostra lingua ho speso, appunto, la vita!

 

Giovanna Bemporad, da Le Voci della Scrittura, Meridiana DSE, Rai Tre, 17 dicembre 1987.

Con queste parole diamo l’estremo saluto alla poetessa e traduttrice Giovanna Bemporad, morta  ieri a Roma all’età di 85 anni. Intima amica di Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Ungaretti e Camillo Sbarbaro ha dato l’intera sua vita alla ricerca del verso perfetto. Adolescente, ad appena 15 anni, esordì con la traduzione dell’“Eneide”, alla quale seguirono quelle di Goethe, Novalis e Hofmannsthal. Nel 1968 uscì la prima parte dell’opera della sua vita che, nel 1993, le valse il premio per Traduzioni Letterarie del Ministero dei Beni Culturali: la traduzione dell’“Odissea” in endecasillabi, ampliata e ristampata fino al 2004. Oltre all’attività di traduzione, bisogna ricordare quella di poetessa con le poesie raccolte nel volume “Esercizi”.

Le illustrazioni di Willy Pogany

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Willy Pogany  nacque nel lontano agosto del 1882  a Szeged, Ungheria e qui lo ricordiamo come uno dei migliori illustratori di libri per bambini e non solo. Dopo i primi fallimentari studi tecnici all’università di Budapest, comprese che la sua strada era quella dell’artista e iniziò a peregrinare per il mondo. Diede inizio alla sua carriera nel 1910 a Londra occupandosi delle edizioni di quattro capolavori: The Rime of the Ancient Mariner (1910) di Samuel Taylor Coleridge, il Tannhauser di Richard Wagner (1911), il Parsifal (1912) e infine il Lohengrin (1913).

Nel 1914 decise di trasferirsi in America e il suo stile iniziò a incontrare i primi riconoscimenti. Nel 1918 illustrò un’edizione per bambini di The Adventures of Odysseus e della Tale of Troy di Padraic Colum. pogany parsifal

Fu anche direttore artistico di diversi film hollywoodiani come Fashions of 1934 e Dames.

Per finire, fu autore di ben tre libri di disegno: le Lezioni di disegno, le Lezioni di pittura ad olio e le Lezioni di Acquarello.

Inoltre, a New York è possibile vedere due esempi murali della sua arte: al Wannamaker’s Department Store e all’Eldorado Hotel.

Lo stile di Pogany segue la scia dell’arte del suo tempo, l’Art Nouveau, reinventando con eleganza e delicatezza favole e miti. I suoi disegni sono infatti pieni di creature mitiche, ninfe, fate, mostri marini e folletti. Il culmine della sua arte risiede tuttavia nei dettagli come nei particolari botanici. Le tecniche che utilizza variano dai pastelli, agli acquarelli e ai dipinti ad olio per opere più sognanti e femminili fino ai dipinti con penna e inchiostro per ottenere effetti più netti e decisi.

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