Il marchio tipografico di Pietro Farri

Il marchio tipografico è ciò che di più intimo un tipografo lascia trapelare della propria visione del mondo, della sua arte e di sé stesso. Nella mia tesi di laurea magistrale è stato questo piccolo simbolo a farmi appassionare al lavoro di uno dei tanti tipografi-editori del ‘500: Pietro Farri.

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Il marchio editoriale è un simbolo o una piccola illustrazione con una o più figure unite alle iniziali dell’editore-stampatore ed eventualmente a un motto, realizzato con la tecnica xilografica, ovvero imprimendo sulla pagina un blocco di legno inciso a mano oppure, con maggior frequenza solo dal XVIII secolo, tramite un supporto di rame.

Il marchio editoriale fa capolino in tipografia per la prima volta nel 1457, nel colophon dello Psalterium magontinum di Johann Fust e Peter Schöfferche scelgono di utilizzare un’iconografia araldica con due scudi appesi a un ramo. Molti altri sono rimasti nella storia e una menzione di riguardo merita quello del caro Aldo Manuzio, il Delfino con il motto latino “Festina Lente” e viaggiando nel tempo fino agli inizi del Novecento quello di Arnoldo Mondadori con la rosa dipinta e il motto dantesco “In su la cima” (Paradiso, XIII, v. 135).

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Tornando al motivo che ha ispirato questo post e che ha come fondamento scientifico le ricerche svolte nella mia tesi magistrale “RICERCA INTORNO AL MONDO NUOVO DI GIOVANNI GIORGINI DA IESI (1596)” , nel corso della sua attività editoriale l’officina del Farri utilizza tre diversi tipi di marche tipografiche per ‘firmare’ i propri lavori.

Seguendo la classificazione proposta da Giuseppina Zappella, per i tipografi del Cinquecento, e quella del Mar.T.E., per quelli del Seicento, Farri sceglie principalmente, per le edizioni cinquecentine, il simbolo del cammello inginocchiato, in atto di rialzarsi per non far aumentare la sua soma, mentre viene caricato da due persone (V43-U373), accompagnato dal motto Satis; questo animale simboleggia infatti «coloro che non intendono caricarsi di pesi maggiori di quelli che possono portare, come il cammello che quando è carico si alza per non fare aumentare la soma»,[1] ma anche il carattere difficile e orgoglioso dei primi tipografi, poiché di loro «il cammello bene si prestava ad esprimere le vicissitudini e le frustrazioni ma anche l’innato amore per la liberà».[2] Per le edizioni del seicento, invece, il Farri opta per un’iconografia più cattolica e classica, adatta al rinnovato fervore religioso e ripresa dai materiali dell’officina paterna, ovvero la Carità, una donna con un bambino in braccio e altri due intorno (le esecuzioni sono diverse e in una di queste la Carità porge una ciotola a uno dei bimbi), seguita talvolta dal motto Ubi Charitas est ibi Deus est o dalla didascalia Charitas (Mar.T.E 347-464-150-1258). In un un’edizione, quella delle Facetie, motti, et burle di Lodovico Domenichi, adopera il marchio del fratello Giovanni con l’uomo triforme e una didascalia in greco, ma senza motto e con le iniziali I. F. (V261-Z1183).

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[1] E. Vaccaro, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del secolo XVI nella Biblioteca Angelica di Roma, Firenze, Olschki 1983, p. 82.

[2] G. Zappella, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento: repertorio di figure, simboli e soggetti e dei relativi motti, Milano, Editrice Bibliografica 1986, I, p. 90.